Zlatan è una corrente di pensiero

Il politically correct può stare sulle scatole a molti. Perché cela l’attività del nascondersi dietro parole forzate, pur di non offendere nessuno. E allora sì, diciamole occhi negli occhi le cose. Come sono, come vengono pensate, senza filtri tra la mente e la lingua. I migliori, d’altronde, non hanno mai avuto bisogno della diplomazia.

Zlatan Ibrahimovic non ha esattamente un rapporto idilliaco con il politically correct. Parla senza peli sulla lingua, usa toni esagerati ed esasperati. E’ un marchio, Zlatan. È, soprattutto, una corrente di pensiero da social. Zlatan erto a divinità, Zlatan l’onnipotente e l’invincibile, Zlatan il migliore di sempre.

E un moto di sconforto seguito da una lacrimuccia avrà colpito qualcuno nel vedere quel Thor senza martello, quell’eroe caduto in terra in un rantolo strozzato. Il crociato non ha retto, la stagione – la prima inglese – è finita anzitempo. Ancor prima di sollevare il trofeo internazionale che lo United s’avvia a vincere, l’Europa League.

La carriera di Zlatan Ibrahimovic è un insulto alla normalità. Gesta, esultanze, goal, presentazioni, dichiarazioni e persino i trofei. Nulla, ma proprio nulla, è passato inosservato, s’è consumato sotto un registro stilistico diverso dal solito. Zlatan è così, volutamente esagerato. Può piacere oppure no, essere ammirato, adulato, oppure odiato e disprezzato. Sarà – sicuramente – ricordato. Nel bene o nel male: è questo l’intento di una corrente di pensiero.

Come calciatore Zlatan è indiscutibile, qualsiasi parola contro l’estro del gigante di Malmoe sarebbe un crimine calcistico. Come corrente di pensiero, invece, fa discutere eccome. Nel bene e nel male, di nuovo. Nelle sfumature di grigio si può cogliere l’essenza del pensiero che si nutre nei suoi confronti: “si odia o si ama” saremmo portati a dire. E invece no, con Zlatan c’è un netto strato di grigio. L’esagerazione dei toni gli dà un’aura di potere e potenza che gli va riconosciuta anche dagli abituali detrattori.

A corredo, però, ci sono i numeri. Parlano, urlano. I trofei, innanzitutto: undici campionati, un mondiale per club, sei coppe nazionali, sette Supercoppe più quella internazionale. Zlatan il giramondo si è diviso tra Olanda, Italia, Svezia, Spagna, Francia e Inghilterra. Zlatan il viaggiatore, Zlatan il vincente. Ovunque. Extracomunitario in Europa, dove non ha – ancora – sollevato alcun trofeo. Avrebbe probabilmente rotto l’incantesimo quest’anno, alzando al cielo un’Europa League dal sapore inedito. 

Ibrahimovic è l’antieroe per eccellenza, ha sfidato coraggiosamente il fato e ne è uscito sconfitto. Il crociato non ha retto ad un impatto devastante con il suolo. Colpa di un “normalissimo” (all’apparenza) Manchester-Anderlecht, una partita che nei tempi d’oro dei Red Devils avrebbe avuto un unico insindacabile padrone. La legge del contrappasso, il karma, forse, potranno pensare i più maligni: gli è costata cara qualche uscita di troppo, qualche spacconeria evitabile? Chissà. Subire l’infortunio più grave della carriera a 35 anni non è un toccasana per lo spirito e per il corpo. Specialmente per uno come Zlatan, che sembrava aver ancora tanto da dire e da dare. D’altronde ognuno di noi ha una storia da raccontare e quella di Ibrahimovic è un’epopea omerica da rendere come kolossal sul grande schermo.

Ma Zlatan tornerà, dopo otto mesi o forse più. Da calciatore, forse. In Europa, forse. In America, forse. Un gigantesco punto interrogativo segna il futuro dello svedese: è che noi proprio non riusciamo ad immaginarcelo nei panni di garbato opinionista tv, o ancora come diplomatico dirigente. Men che meno lo ipotizziamo seduto in panchina: entrerebbe in campo per dare qualche lezione ai suoi calciatori. Lo immaginiamo, piuttosto a tentare e ritentare, a sbattere la testa sul muro, a perdere ore, ore ed ore per tornare a regnare sul campo da calcio. Con un unico intento. Vincere? Macché! Essere Zlatan. Una corrente di pensiero, prima che un calciatore.

Vittorio Perrone
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