Il sudore, il dolore e le lacrime. Copiose. Quella fatica mista a rabbia da scacciare. Lo sconforto incontrollabile, che non dà tregua. Un fardello che può distruggere, a poco a poco, o fortificare. E se con classe ed orgoglio riesci ad alzare la testa stringendo i denti, beh, è fatta. Spazio alla gioia, irrefrenabile. Tutto insieme. Da impazzire. È la vita. È il ciclismo. Dove l’epica ed il romanzo si abbracciano, stretto, perché tutto questo non può essere semplicemente sport. Non lo è, non lo sarà mai. E certi trionfi scomodano la leggenda e vanno oltre. Gusto, mai perdenza. Inconfondibile. Appunto. Vincenzo Nibali, lo Squalo dello Stretto, orgoglio di Sicilia e del belpaese ha vinto la novantanovesima edizione del Giro d’Italia e l’ha fatto scomodando imprese ormai sopite, facendo esplodere d’orgoglio i tifosi, riuscendo ad accendere la scintilla anche nello sguardo di chi il ciclismo lo ammira da lontano, di rado. Questione di cuore. E talento, infinito.
Una vittoria sofferta, azzannata, quando tutto sembrava perso, sfumato. Come la vita del giovane Rosario, talentino quattordicenne della Asd Nibali, un figlioccio per Vincenzo, l’idolo da emulare e seguire. Una vita strappata via dalla sorte, quella infame, infida, inconcepibile. Ferite da sanare, tutto è un peso, nulla ha alcun senso. Il vuoto è enorme, impossibile da riempire. Lenire, quello sì, balsamo per il dolore. Un Giro da incubo, anche dal punto di vista prettamente sportivo. Un tormento continuo, tra problemi fisici e la sorte, sempre lei, incurante e malevola. Le gambe non vanno, e quando non è il fisico è il mezzo, la bici, la compagna di una vita che ti abbandona nella crono-scalata Castel Rotto-Alpe di Siusi.
L’ambizione va in pezzi. La ragione – e i poco lungimiranti – invitano persino ad abbandonare. Ma Nibali non molla, mai. Questione d’istinto. Questione di cuore, dicevamo, è così. Possibile afferrare un Giro in due tappe? Sconvolgere ogni equilibrio in otto ore e quaranta minuti? Spaccare in due la competizione issandosi altissimo oltre i sogni di Kruijswijk e Chaves? Un fuoriclasse può, eccome, perché il limite non esiste. Non c’è ostacolo che tenga quando lo Squalo punta la preda, scorge l’odore del sangue. Da Pinerolo a Risoul, da Guillestre a Sant’Anna, Nibali è un rullo siculo dall’incedere implacabile e maestoso. Passivi annullati, avversari schiantati. Ogni errore è una condanna, ogni calo di ritmo un invito a nozze per chi riesce, finalmente, a gettare tutto sé stesso – e anche di più – su quei pedali. Numeri incredibili, in due giorni recuperati 6’33” a Kruijswijk, 2’35” a Chaves, 2’37” a Valverde. Quarto a Pinerolo, in Rosa all’arrivo a Sant’Anna. L’apice sul Colle dell’Agnello, a 2700 metri, il fulcro di una rincorsa che sa di resurrezione. L’arrivo a Risoul, la commozione. Il cuore in gola, con dedica a Rosario ed ai compagni dell’Astana. Gregari e pretoriani, a partire da un sontuoso Scarponi, polmoni e gambe al servizio di Nibali, tingendo di Rosa un’apoteosi scandita da scatti forsennati.
La vittoria più bella, con i titoli di coda in passerella all’ombra della Mole Antonelliana. Strano a dirsi per chi può fregiarsi della Tripla Corona, una vittoria in tutti i tre grandi Giri. Ma due tappe simili, due sussulti in grado di abbinare inconfondibile stoffa ed encomiabile strategia e lavoro di squadra, discese dolcissime da vivere con il vento benefico a rinfrancare volto e spirito dopo un percorso accidentato, non lasciano dubbi. Oltre il dominio nel Giro 2013, più della perfezione nel Tour 2014. Dilaniato dalle difficoltà aveva affermato: “Non sono una macchina”. Come dargli torto. Ventitré giorni, dal Paradiso all’Inferno e ritorno: sudore, dolore, lacrime e talento. Lo Squalo non è una macchina, è il ciclismo che ti travolge. E fa sognare.
Edoardo Brancaccio
This post was last modified on 29 Maggio 2016
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