Esclusiva – Stelitano, il calciatore giramondo: “All’allenamento con il cavallo, la Libertadores per chiudere la mia carriera folle”

Il calciatore giramondo. È soprannominato così Antonio Stelitano, terzino destro classe 1987 che giocando a calcio ha davvero girato il globo.

È partito dall’Italia per l’Argentina a 20 anni, passando poi per Repubblica Dominicana, Mongolia, Romania, Spagna, Uruguay, Marocco, Malta, Lituania, fino a raggiungere San Marino, dove ora veste la maglia del Pennarossa. Stelitano detiene, ad oggi, il record come calciatore italiano che ha giocato in più campionati esteri.

Lo abbiamo intervistato per raccontarci la sua storia, una storia che ha sempre avuto un obiettivo ben chiaro: raggiungere il proprio sogno, ad ogni costo.

Sei nel calcio professionistico da quasi 20 anni, all’inizio avresti mai immaginato la carriera da giramondo?

No, all’inizio neanche pensavo che si potessero fare tutte queste esperienze tramite il calcio. Io ho iniziato nel settore giovanile del Messina quando era in Serie A, poi ho giocato nelle squadre regionali della mia città da ragazzino, fino ad arrivare nei professionisti a 19 anni. Il traguardo più importante l’avevo realizzato giocando nei professionisti vicino casa con la maglia dell’Igea Virtus, in Lega Pro.

Poi il destino ha voluto che, nonostante i due anni di contratto, l’Igea Virtus non si iscrivesse al campionato quell’anno e mi sono trovato a non avere nulla in mano, in un’età in cui devi fare scelte importanti per la vita. Mi sono chiesto cosa fare, se lasciare il calcio e studiare o continuare a giocare“.

Come è nata la possibilità di andare in Argentina nella tua prima squadra all’estero, il Real Arroyo Seco?

Avevo 20 anni, è stato un passo immenso, non parliamo di Spagna dove sei a due ore di casa. È un Paese dove è raro che ci vadano italiani a giocare. Mentre ero all’Igea Virtus vennero alcuni argentini in prova e gli diedi un passaggio al traghetto perché avevano il procuratore che era in Calabria. Qualche giorno dopo venne con loro anche il procuratore e si vide l’allenamento, dandomi il contatto per entrare nella sua scuderia.

Quando l’Igea Virtus fallì io mi trovai senza nulla, quindi ho dovuto mettermi alla ricerca. Scrissi ad alcuni procuratori, tra cui lui, e mi disse che aveva una richiesta per un terzino destro, che allora era il mio unico ruolo, ma dall’Argentina, dall’altra parte del mondo. Dissi subito si su due piedi, senza neppure rendermene conto.

Quando tornai a casa i miei genitori mi parlarono, dicendomi di quanto Buenos Aires fosse pericolosa, piena di povertà. Loro erano molto per lo studio, mio padre e mia sorella sono medici. Io ora sto prendendo la laurea in lingue e mercati, ma a 19 anni ero solo calcio, calcio, calcio. Volevo giocare nei professionisti, e alla fine li convinsi. Ricordo che mio padre mi regalò un dizionario per tradurre e parlare spagnolo, non c’era la tecnologia di oggi.

Arrivai all’aeroporto di Buenos Aires e mi si aprì un mondo. Capì che volevo fare questo per tutta la vita: viaggiare, lottare per i miei sogni, ovunque ci sarebbe stata la possibilità di mettermi in mostra, di poter avere nuove sfide. Incoscienza e fame di arrivare mi fecero accettare questa nuova avventura, la prima di tante“.

Il calcio sudamericano è tra i più belli al mondo, che impronta ha lasciato nella tua carriera?

Quando ero un ragazzino pensavo che lì fosse un calcio tutto tecnico, invece mi ha sconvolto la passione che ho trovato. C’è un’intervista di Daniele De Rossi in cui dice: “il primo giorno al Boca un ragazzino mi fece un’entrata e non mi chiese neanche scusa, a Roma invece neppure mi si avvicinavano e mi davano del Lei”. Questo rende l’idea.

Sono arrivato e andavano tutti a tremila, anche il giovedì che c’era l’amichevole si giocava con un’intensità come se fosse la finale di Champions League. Lo stadio pieno sempre, in ogni partita, in ogni categoria, in ogni divisione. Questo mi ha aiutato tanto, perché io sono un calciatore che si basa molto sull’agonismo, sull’intensità, e quindi ho rafforzato ancora di più le mie caratteristiche.

Chi pensa che in Argentina sia tutta tecnica si sbaglia: c’è grande intensità, corrono, picchiano. Il giocatore determinato, che fa i contrasti, che vince le seconde palle, piace molto. Si tratta di un popolo di calciatori, perché in Argentina – e ancor di più in Uruguay – tutti giocano a calcio, ci sono più calciatori che abitanti. C’è una mentalità di sacrificio, di dare il 100%, senza abbattersi alle delusione. Una frase uruguagia mi ha colpito: Vamos arriba, andiamo in alto. Uno fa un errore? Vamos arriba. Perdi una partita? Vamos arriba. Sono popoli guerrieri. Lì si vive la Garra Charrua“.

Sei l’italiano che ha giocato in più campionati all’estero: Repubblica Dominicana, Mongolia, Lituania, Romania. Il calcio in queste nazioni è davvero poco competitivo o è più avanti di quello che sembra?

C’è l’esempio di Andrea Compagno, che fino a qualche anno fa giocava a San Marino, poi è andato in Romania e ora è in Nazionale. È un esempio schiacciante. Sono stato in Romania due anni e mezzo dove ho fatto anche il capitano. In Spagna due anni, prima all’estremo Nord e poi all’estremo Sud, che in realtà era Marocco.

La Serie A rumena è come la B italiana. Non è poco competitiva. Magari in Lituania un po’ meno essendo un solo campionato con 10 squadre, seppur sempre professionistiche. Ovviamente in Italia hai cinque categorie di livello – Serie A, B, C, D e qualche squadra di Eccellenza – quindi è normale che ci sia un altro calcio.

La Serie A ormai è buona ovunque, anche se vai in Mongolia o nelle Filippine. I calciatori forti, che sono tutti stranieri perché li pagano bene, sono bravi. I tecnici sono tutti stranieri, perfino in Asia chiedono un tecnico UEFA Pro. Ad esempio una Serie C spagnola non è superiore alla Serie A della Repubblica Dominicana, dove si gioca con 40 gradi, con giocatori molto fisici. Il livello è cresciuto con tanti tecnici spagnoli e con la mentalità di giocare la palla.

Si fa più fatica in un campionato come quello che in C spagnola, dove comunque ho giocato contro Malaga B o Siviglia B. In quegli anni in Romania c’era un livello molto alto, Cluj, Steaua erano sempre in Champions, la Romania anche agli Europei“.

Quale nazione ha lasciato più il segno dentro di te?

In Repubblica Dominicana ho fatto una parte importante della mia carriera, mi sono tolto soddisfazioni: ho vinto un campionato, sono stato premiato come miglior straniero, ci sono anche ritornato due anni fa. Sono state esperienze che porterò per tutta la vita nel mio cuore. Vincere il campionato è sempre una cosa speciale. Sono molto conosciuto in quel Paese, ho lasciato il segno, sono stato il primo e unico italiano a giocare lì e avrà sempre un posto speciale.

Sono stato molto bene anche a Malta, dove ho anche avuto due allenatori italiani, Alfonso Greco e Andrea Pisano, di cui posso spendere parole bellissime. Nonostante una vita completamente diversa, la Repubblica Dominicana mi ha dato qualcosa di nuovo, di emozionante. A volte addirittura mi affittavo il cavallo per andare all’allenamento“.

Ora sei a San Marino al Pennarossa, che obiettivi hai?

L’obiettivo sono i Playoff e vincerli per partecipare all’Europa League. Eravamo partiti molto bene, poi è stata una stagione di alti e bassi. Sarebbe il coronamento di un sogno. Se non sarà quest’anno, io comunque ho l’obiettivo di giocare una competizione internazionale che sia Europa League, Champions o Conference, Libertadores o Concacaf.

Fisicamente sto bene e voglio questa ciliegina sulla torta alla mia carriera. A San Marino sono venuto proprio con questo obiettivo, e non voglio andarmene da qui senza averlo raggiunto“.

Vorresti un’altra esperienza all’estero o preferiresti chiudere in Italia?

Un mese fa ho avuto la possibilità di andare nella Serie B degli Emirati Arabi, lo stipendio era anche molto buono, ma avevo alcuni problemi familiari e non me la sono sentita di spostarmi. Nella mia carriera non ho mai messo al primo posto i soldi, anche se ho guadagnato bene nonostante i tanti sacrifici. Però, se fosse stata un’avventura ancora più stimolante, come una squadra di Libertadores, forse l’avrei accettata. Serie A ne ho fatte tante, una coppa internazionale mi manca“.

Una partita di Champions League o una di Copa Libertadores?

Domanda difficile. Il bambino che c’è in me ti risponde Champions League, perché è cresciuto con quella musichetta. L’Antonio Stelitano giramondo, invece, pensa che giocare la Libertadores significherebbe ancor di più chiudere bene una carriera particolare. Quindi forse Libertadores, per completare questa carriera folle“.

Hai fatto tanti sacrifici per realizzare il tuo sogno: quale messaggio daresti a tanti ragazzi che non riescono a sfondare da giovani e abbandonano poi il calcio?

L’Antonio bambino ti dice che sicuramente sono tanti sacrifici, lasciare i genitori, lasciare casa. Non puoi avere legami lunghi, a 35 anni non ho una famiglia mia perché spostandomi sempre non è facile. Però quando mi sveglio la mattina e penso a tutto quello che ho vissuto, penso non ci sia cosa più bella. Se uno ha un sogno deve crederci, una vita senza un sogno non merita di essere vissuta.

Il calcio non è solo uno sport, per me è stato lavoro, passione, emozioni, sentimento, stabilità economica. Mi ha dato tanto. Se si è disposti a tutto per realizzare questo sogno, non ci sono ostacoli che tengono. Se non è una squadra, un Paese, un allenatore quello giusto, allora sarà un altro. Ho trasformato la passione in lavoro, e ho vissuto in posti straordinari che non avrei mai immaginato di conoscere. Un conto è viverci, un altro è fare il turista.

Non bisogna mai mollare, siamo noi il vero giudice di noi stessi, e se abbiamo dato tutto saremo felici anche se siamo arrivati sulle stelle e non sulla luna. Che vita sarebbe senza il calcio“.

Peppe Cervellera

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