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“Il Toro non è morto, è solo in trasferta”

Bagicalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.
E chi sarebbero questi? Probabilmente è la domanda che alcuni possono porsi se non conoscono la storia di questi undici uomini uniti. Sicuramente alcuni sembrano familiari, in quanto prestano il nome a numerosi stadi in lungo e in largo della nostra casa penisola pallonara. Quell’undici era la squadra più forte del mondo: il Torino, pardon, il Grande Torino. Cinque scudetti di fila e una Coppa Italia, fossero già esistite Champions e vari tornei internazionali, di sicuro avrebbero avuto tutti lo stesso padrone. Una squadra che incantava con il suo “Sistema”, portato avanti dal magiaro Egri Erbstein (il quale collaborava in incognito a causa delle leggi razziali per le sue origini ebraiche) e che divenne ben presto l’icona del calcio italiano nel mondo, dato che nove undicesimi di quella “starting line”, quando Vittorio Pozzo chiamava, toglievano la maglia granata per indossare quella azzurra, ma poco cambiava, per il fatto che il tricolore in entrambe le casacche era il massimo comun divisore. Erano invincibili, su 172 partite ufficiali, lungo l’arco di un quinquennio, solo in 32 episodi hanno dovuto soccombere agli avversari. Ma ad un avversario è impossibile opporsi, il destino.

La partenza da Lisbona

L’AMICHEVOLE FATALE Purtroppo se sei un eroe, devi fare il conto con loro, le Tre Moire (dee del destino), che tanto avevano concesso a questi uomini e che  aspettavano solo che Atropo, l’ultima delle tre sorelle, recidesse il filo del Fato. Le cesoie si appoggiarono al filo il 4 maggio 1949. Quasi sul finire della stagione ’48-’49, i granata avevano ipotecato il quinto campionato consecutivo portando a casa un buon punto da Milano, sponda neroazzurra. Il Torino era solito esibirsi, visto che la sua fama arrivava addirittura oltreoceano, in diverse nazioni. Lo aveva fatto in Brasile, Argentina; ma anche in Belgio. Quasi come dei Globetrotters calcistici. Francisco “Chico” Ferreira, capitano del Benfica sul viale del tramonto, strinse un ottimo rapporto con colui il quale faceva scoccare il famigerato “quarto d’ora granata” al suo solo rimboccarsi le maniche, ovvero il capitano Valentino Mazzola, dopo un’amichevole a Genova tra Italia e Portogallo. Proprio in quell’occasione, il lusitano riuscì a strappare una promessa dal campione granata: il Toro avrebbe fatto visita al Benfica nella gara di addio dello stesso Ferreira. Così il 1 maggio, la squadra in compagnia di alcuni giornalisti (Nicolò Carosio, celebre voce di tante gesta azzurre non poté per la cresima di suo figlio) partirono da Milano per Lisbona su un Fiat G212, per poi esibirsi due giorni dopo, il 3 maggio. Per la cronaca la partita vide le Aquile avere la meglio sul Toro per 4 reti a 3.

Lo schianto

LA TRAGEDIA – Al ritorno, il giorno successivo, la città sabauda e le sue colline limitrofe erano circondate da una fitta nebbia, preludio di un evento nefasto, come se il “Buon Lord” da lassù avesse voluto fare in modo che l’intera città non vedesse morire i propri beniamini. L’aereo ,fuori controllo, alle 17:05 si schiantò contro la Basilica di Superga, divenuta ormai il Vittoriano granata: l’impatto costò la vita a tutti e trentuno i passegeri a bordo. L’evento ebbe una risonanza mediatica ed emotiva mondiale: vi siete mai chiesti perché alcune volte il River Plate gioca con una maglia granata? Questo è solo uno delle tante manifestazioni d’affetto nei confronti di quel Toro. La nazionale italiana, fortemente traumatizzata ed orfana della sua ossatura principale, decise di approdare in Brasile, sede del Mondiale 1950 (quello del Maracanazo), in nave. Da quel momento in poi, il Torino non è stato più lo stesso, come una madre che perde la voglia di vivere per la morte di un figlio. Ma a noi piace pensare che, come affermava Indro Montanelli, “il Grande Torino non è morto, è solo in trasferta”. Lassù sicuramente si staranno divertendo, perché davvero giocavano “da Dio”.

redazione

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