Lauro Muller è un paesino di 14 mila abitanti nello stato di Santa Catarina, in Brasile. Era destino che il viaggio di Eder, nato in quel villaggio nella zona mineraria della nazione, lo portasse in Italia al seguito della sua più grande passione: il calcio. Era destino che questo brasiliano tozzo incrociasse così, un po’ per caso, un po’ per antichi legami di sangue, il tricolore italiano, che oggi porta in alto in Europa con la casacca azzurra. Sembra strano. Anzi, lo è. Perché la logorante gara con la Svezia è stata sì decisa da un brasiliano, ma al termine di novanta minuti di pura battaglia, volta a sovrastare errori di natura tecnica.
Perché – diciamocelo – l’Italia ha giocato male. Ha lasciato agli svedesi il pallino del gioco, non ha mai punto e si è impantanata in un gioco sterile e poco produttivo. I tre punti conquistati come manna dal cielo sono l’espressione maggiore della mentalità del Belpaese calcistico. Questa nazionale, in fondo, poggia le proprie fondamenta sul blocco difensivo della Juventus, impenetrabile anche in questa circostanza. Perché sì, la Svezia fa circolare palla, ma solo perché quelli in casacca azzurra glielo concedono: le conclusioni di Ibrahimovic e compagni si contano sulle dita di una mano (quattro). E allora godiamo: perché la mentalità tricolore, avversata e invidiata, è tornata a fare da padrona a una nazionale qualitativamente sterile.
E’ il tripudio dell’italianità: quella che sa nascondere i difetti tecnici, quella che si fonda su una difesa rocciosa (che poi il resto viene da sé), quella che fa dello spirito di sacrificio e dell’amalgama del gruppo il proprio pane quotidiano. Solo così l’Italia “più scarsa di sempre” poteva superare il girone in modo impeccabile, sfruttando al massimo quel poco concesso dagli avversari senza dar loro l’opportunità di replicare: l’unico gesto saliente della partita di Buffon è l’arrampicata sulla traversa, stavolta conclusa senza stramazzare al suolo. Ecco, il dato più positivo è una smentita allo scetticismo dell’intero popolo dello Stivale: sulla carta Conte e i suoi ragazzi in questo momento avrebbero già dovuto imbarcarsi per il volo di ritorno.
Mentalità italiana. Che di solito vuol dire vincente, non importa come. L’essenziale è sapere che quel pallone può entrare in porta da un momento all’altro, lasciando lo zero alla voce “goal incassati”. E allora godiamo: un motivo in più per sorridere c’è, ce lo forniscono su un piatto d’argento le altre grandi favorite. La Francia, celebrata come la squadra più forte del torneo, arranca con l’Albania e la supera soltanto in zona Cesarini. La Spagna ringrazia la testa di Piqué e la mente di Iniesta, il panzer tedesco di Loew impatta contro quella piccola sorpresa che è la Polonia. Sì, se il buongiorno si vede dal mattino la vittoria finale è – scongiuri annessi – alla portata: all’italiana, con una difesa di ferro, un gruppo compatto e la voglia di lottare fino alla fine e di non dare mai nulla per scontato. Perché quella rete, prima o poi, si gonfierà: anche grazie a un brasiliano.
Vittorio Perrone
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